Cecità – José Saramago
Traduzione di Rita Desti
Feltrinelli
276 pagine
Perdere la vista. Non è
qualcosa a cui normalmente si pensa, ma sicuramente spaventa tutti. Tuttavia,
sappiamo che in caso di un tale evento, potremmo contare sull’aiuto delle
persone che tengono a noi. Avremmo il tempo di abituarci alla nuova condizione
e sapremmo che il mondo andrebbe avanti esattamente come prima, incurante di
noi. La qual cosa può essere di conforto, un punto fermo, sapere che tutte le
cose di cui avremo bisogno saranno comunque al loro solito posto anche se
magari dovremo rapportarci con loro in modo diverso.
Nel libro di Saramago la
cecità non è un fardello di pochi, ma un macigno per tutti. Inizia a
diffondersi poco a poco, una persona, due persone, cinque, venti. Un’epidemia
che il Governo di questo Stato innominato non sa come gestire. Può soltanto
cercare di contenerla, segregando i colpiti.
Una cecità che
terrorizza prima di tutto per la diffusione contagiosa, in secondo luogo per il
biancore abbagliante che la caratterizza. I ciechi non brancolano nel buio, ma
vagano per un eterno latteo mondo, che solo l’incoscienza può portare via. Mi
fa pensare a un grande nulla.
Questi uomini, donne,
bambini, vecchi, sono ammassati in strutture non adatte a contenerli e abbandonati
a se stessi, con giusto qualche saltuaria consegna di cibo. Senza neanche la
possibilità di scappare, perché sorvegliati dai militari. Uomini ancora più
spaventati di loro, che non esitano a falciare chiunque gli si avvicini,
completamente servi del terrore che provocano quegli occhi spenti.
Nella narrazione
seguiamo in particolare il caso delle prime vittime, fra cui un oculista e sua
moglie, rinchiusi in un manicomio abbandonato. Li chiama così l’autore,
oculista, moglie dell’oculista, vecchio bendato, ragazza con gli occhiali
scuri… in un mondo di ciechi i nomi propri hanno perso importanza, la voce
l’unica guida che differenzia.
Ed ecco che Saramago,
come già in Le intermittenze della morte,
riesce a dar voce alle masse, a far parlare le follie, le problematiche, di
un’umanità che si trova sull’orlo di un
baratro. Un precipizio che la farà cadere nella bestialità e verso il quale,
cieca e sola, vi si dirige a passi malfermi.
I pochi protagonisti che
seguiamo da vicino cercano di resistere e di non smarrirsi, questo grazie al
fondamentale aiuto della moglie del medico. Unica, a quanto sappiamo, in tutto
il mondo, a conservare la vista. Occhi che la feriscono perché la costringono
ancora più duramente a testimoniare lo scempio che gli uomini fanno di se
stessi.
Questo libro mi ha
sconvolta, disgustata, terrorizzata, mi ha fatto sentire impotente. La
desolazione e lo smarrimento sono palpabili.
Gli esseri umani sono
capaci di grande compassione, ma anche di atti d’indicibile efferatezza,
proprio nei momenti in cui siamo più fragili. José Saramago mostra come alcuni
non esitino ad approfittarsi e a sopraffare il prossimo, con crudeltà,
rivelando l’orrore che si può celare nel cuore di alcuni.
Alla fine, nonostante la
conclusione, rimane dell’amaro in bocca. La consapevolezza di non sapere chi si
cela dietro la maschera di un pendolare o di un commesso, o di cosa si è capaci
di fare, a che cosa possiamo ridurci, se abbandonati a noi stessi e alla mera
sopravvivenza, non si può dimenticare.
«[…] penso che siamo già morti, siamo ciechi perché siamo
morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché
siamo ciechi, il risultato è lo stesso […]» pag. 213
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