Capo Horn – Francisco Coloane

Traduzione di Pino Cacucci
Guanda
175 pagine

Leggere questo libro è come fare un vero e proprio viaggio.
Bastano poche righe, e Francisco Coloane ci porta nella Terra del Fuoco, ai confini del mondo, un arcipelago dell’America del Sud diviso tra Argentina e Cile.
Sono storie avventurose, di persone abituate a guadagnarsi ogni respiro, in una terra che niente regala e molto toglie. Nonostante questo riesce ad ammaliare i suoi più autentici abitanti, che non possono più vivere altrove. Come se solo lei riuscisse a farli sentire vivi.
Questi racconti parlano della vita, di uomini e animali, nella sua essenza più semplice, poiché sono storie senza tempo. Dico questo perché i luoghi in cui sono ambientate sono come privi di riferimenti, spogli di umanità. La natura fa da vera padrona e rende tutto distaccato dal resto del mondo, facendoci dare uno sguardo sull’immensità. È questa la sensazione che ho avuto.

“Durante il giorno abbiamo una sensazione più concreta del nostro esistere sulla terra. Ma di notte, specie quando il cielo è terso e distinguiamo chiaramente gli astri, ci rendiamo conto di abitare soltanto su un’isola perduta nello spazio, e a quel punto la terra si perde nel nulla, camminiamo con gli occhi fissi sulla via lattea, e cuore, anima e mente volano nel cosmo per poi ridiscendere, fino al giorno in cui si cade definitivamente sotto quattro palate di terra.”

Francisco Coloane è come un pittore. Con poche pennellate dipinge un racconto, un quadro, raccontando l’indispensabile che però è tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Senza fronzoli, senza giri di parole, riesce a tratteggiare un dipinto, che è poetico e crudo allo stesso tempo. È questo strano miscuglio che risalta, dove le parole sono pregne di significato e lasciano il segno, senza essere pesanti.

“Il piccolo Manuel ricordò quando nella pampa infinita, la cui superficie sembrava incurvarsi per seguire la rotondità della terra, era sorta un’immensa fiammata, e di lì a poco, una sfera di fuoco, sanguigna, mostruosa, aveva cominciato a levarsi lentamente all’orizzonte. Le praterie immerse nella quiete si erano ammantate d’oro; una pecora aveva alzato la testa anch’essa dorata; le recinzioni si erano trasformate in fili di luce e il paesaggio in lontananza palpitava azzurrino, come un miraggio.
Ricordò come era rimasto rattrappito in un angolo buio dell’automobile, in preda all’inquietudine, e quando poi aveva ritirato su la testa e alzato un lembo della capote, i suoi occhi, timidamente, erano annegati in quello spettacolo che vedeva per la prima volta: lo spuntare della luna sulla Terra del Fuoco.”

Sono racconti che potremmo ascoltare in quelle terre, attorno a un fuoco al calare della sera. E anche se inventate, sarebbero tutte autentiche.

The iceberg - Frederic Edwin Church
“I cavalieri galoppavano nella notte, su un altopiano flagellato da neve, grandine e vento. Erano cinque pastori su cavalli scuri, alti e robusti, seguiti da otto cani che trottavano appaiati di fianco ai loro padroni.
Quel gruppo di uomini e animali avanzava come un’unica ombra strana nella notte di tormenta. I ponchos neri svolazzavano sulle groppe lucenti dei destrieri, al ritmo del galoppo, come bandiere di un singolare squadrone, e l’intero gruppo si confondeva con le ombre che ondeggiavano agli ululati del vento, tra note sorde, boccate d’aria gelida e sferzate della tempesta che faceva tremare i corpi vigorosi.
Improvvisamente, una figura si stacca dal gruppo in corsa. È un cavaliere. Volta il cavallo indietro e si lancia nella direzione da cui è venuto. Un fatto alquanto insolito. È come se con lui stia tornando sui propri passi l intero gruppo, e i quattro cavalieri che continuano a galoppare in lontananza sembrano soltanto un brandello dell’unità che quell’uomo rappresenta, sfidando la notte ostile, tra raffiche di neve, acqua e tenebre…
Lo strano cavaliere che sta percorrendo a ritroso le tre ore di intenso galoppo sulla parte più elevata dell’altopiano, quella che protegge dai venti del nord le tre case della sezione 13 della tenuta Baja, nella Terra del Fuoco, si chiama Suibiabre. È senza cani. E il motivo della sua decisione improvvisa è il rimorso per aver abbandonato il cane che più ha amato nella sua vita da pastore, morto quello stesso giorno nel coraggioso tentativo di salvare un gregge.
I ricordi si affollano nella sua mente, e il rimorso è così forte che si sente pervaso da un senso di struggimento; ma una raffica di vento e nevischio ferisce i suoi occhi, e qualcosa che poteva assomigliare a una lacrima si blocca e torna indietro, diventa un groppo amaro, e sente un peso doloroso nel petto che quasi lo soffoca. Stringe i denti fino a farli stridere, impugna le redini con forza, sprona con maggior vigore i fianchi del cavallo e attraversa la tempesta come un fantasma.”


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