Cronache marziane – Ray Bradbury

Traduzione di Giorgio Monicelli
Mondadori
271 pagine

Non ho mai letto molto di fantascienza, è un genere di cui non mi sono interessata in pratica fino a H. P. Lovecraft. Procedo quindi a piccoli passi.
Sono racconti ma non lo sono. Questo perché sono tutti collegati in qualche modo e si capisce che fanno parte di un insieme più grande. Non sarebbe di certo la stessa cosa leggerli singolarmente ogni tanto. Perciò più che una raccolta d racconti mi sembra un romanzo-racconto.

Nel 1999 per l’uomo viaggiare nello spazio è quasi come andare a fare una gita fuori porta ed inizia perciò a cullare l’idea di esplorare e colonizzare altri pianeti. La prima scelta ricade su Marte che in quest’anno è prontamente raggiunto, e poi così in seguito anche negli anni seguenti.
Anno dopo anno, come sarà il rapporto dell’uomo con questo “nuovo” pianeta e i suoi abitanti? Questo libro ce lo racconta.

Il primo impatto con questi marziani è interessante, simili e diversi allo stesso tempo. Uno scontro tra culture immane, possiamo proprio dire tra mondi. Non ho potuto fare a meno di pensare al libro che ho letto in precedenza: Indios, cinesi, falsari. Se la scoperta di un nuovo continente ha avuto l’importanza che ben conosciamo, come reagiremmo all’incontro con una specie aliena? Riusciremmo a far prevalere l’intelletto o sarebbe l’avidità ad avere la meglio (come nel caso del continente americano)? Bradbury non sembra avere dubbi.
In quello che a mio avviso in parte è anche un romanzo distopico, l’autore sembra credere che sarà la cupidigia a far viaggiare l’uomo nel cosmo più che la sete di conoscenza. I risultati si possono facilmente immaginare, perché se non fosse ambientato su Marte potrebbe essere benissimo un continente terrestre. Forse è anche questo che ci rende così vicino questo libro, dove un mondo lontano fa da sfondo ad azioni fin troppo terrene. Non si riesce neanche ad essere veramente stupiti da questo funesto presagio, che potremmo cambiare già adesso, ma temo che l’uomo inizierà a scorrazzare nello spazio ben prima di raggiungere una levatura intellettuale tale da sapersi rapportare con una civiltà aliena. Ci vorranno molti errori per migliorarci. Sia chiaro che non sto parlando dei singoli individui, ma dell’umanità in generale.
A questo proposito mi viene in mente una battuta del film Men in Black, quando il futuro agente J chiede all’agente K perché non dicono al mondo la verità sull’esistenza degli alieni, e lui risponde:
“Una persona è matura. La gente è un animale ottuso, pauroso e pericoloso […].”

Una foto della superficie di Marte
 scattata dal rover Curiosity
 .   
Il libro di Ray Bradbury ci porta in un mondo di fantascienza contemporaneo e comprensibile anche dopo quasi settant’anni, anche se si comprende da diversi dettagli che è stato scritto negli anni ’50 o giù di lì. La sua immaginazione aveva dei limiti e non ha certo potuto evitare di portare la società a lui conosciuta e le relazioni che vi intercorrevano nel futuro proprio come le sperimentava; come non è riuscito a immaginare tecnologie ormai per noi normali mentre ne ha create altre fantasiose.

Descrivendo le varie sfaccettature di una colonizzazione marziana, Ray Bradbury riesce a parlarci di qualcos’altro. Non è semplicemente un libro di fantascienza, Marte in fondo è anche una scusa per parlare d’altro, dell’uomo e del suo rapporto con chi e cosa lo circonda. Lo spazio, che dovrebbe rievocare mistero e novità, ricerca, speranza, tutto questo è rovinato dall’uomo che porta la morte della mente e dell’immaginazione. Ne deriva un po’ di tristezza alla fine di questa lettura, ma la speranza è che il desiderio di scoprire l’ignoto sia sempre più forte delle semplici mire materiali.

Ecco una poesia di Sara Teasdale (1884-1933) riportata nel libro e che dà il titolo a un capitolo. Nonostante sia stata pubblicata per la prima volta nel 1920 riesce a essere sorprendente attuale e adatta alla storia, con il suo vaticinio post apocalittico. L’idea che la specie umana potesse estinguersi a causa della guerra non era un pensiero usuale per l’epoca e denota una capacità di preveggenza mista a sfiducia nell’umanità che lascia mestamente consapevoli della nostra natura.

There will come soft rains and the smell of the ground,
And swallows circling with their shimmering sound;

And frogs in the pools singing at night,
And wild plum trees in tremulous white,

Robins will wear their feathery fire
Whistling their whims on a low fence-wire;

And not one will know of the war, not one
Will care at last when it is done.

Not one would mind, neither bird nor tree
If mankind perished utterly;

And Spring herself, when she woke at dawn,
Would scarcely know that we were gone.

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