Ai confini dell’anima – I Greci e la follia – Giulio Guidorizzi
Raffaello Cortina Editore
Collana Scienza e Idee
220 pagine
Cosa vi viene in mente quando pensate alla
follia? Qualcuno stretto in una camicia di forza, chiuso in una stanza
imbottita? Una donna che grida strappandosi i capelli? Un uomo che vagheggia di
essere Napoleone o la prossima fine del mondo?
E cosa pensate di lui, o di lei? Ne
avete pietà? Paura? Orrore?
Non esiste certo un’unica risposta a
queste domande, non solo per via di un credo e un’etica personali, ma perché
l’idea e l’opinione che oggi abbiamo della follia (e di praticamente ogni altra
cosa) è influenzata dalla nostra cultura e dall’epoca nella quale ci troviamo.
Facciamo quindi un salto indietro nel
tempo con questo saggio di Giulio Guidorizzi, prima della “grande reclusione”
che avvenne dopo il Rinascimento. Quando si pensò fosse buono e giusto segregare
folli, pazzi, malati di mente, in edifici chiusi a chiave e sorvegliati per
risolvere il problema.
Torniamo nell’antica Grecia, dove la
follia aveva un posto nei rituali e nella religione, ma dove possiamo trovare
anche un solco nel V sec. A.C. quando prese piede anche l’idea della follia
come malattia fisica.
«[…]
i Greci sottrassero la follia agli dei e la resero umana. Infatti se il folle è
un malato […] oppure un essere umano che ha abbandonato la strada della ragione
[…] cessa di essere un mediatore tra i piani diversi della realtà [...]» pag.20
La follia non aveva un solo significato
o ruolo per gli antichi greci: malattia, esperienza religiosa, istituzione
culturale... Non era tranciata di netto e separata dalla comunità, esclusa. Non
era questo il rapporto che avevano con lei.
I folli non erano reclusi o isolati,
coesistevano con i sani. La cosa fondamentale era non alterare l’ordine della
città e dei suoi abitanti, perciò dovevano avere un ruolo, i pazzi dovevano
ritrovare un loro posto. Una volta fatto questo, erano in pace con la follia.
Potevano quindi essere un tramite per
entrare in contatto con un dio, per pronunciare oracoli, persino i poeti erano
posseduti dalle Muse.
Per coloro che dovevano essere guariti
c’erano delle cure, per esempio una sorta di rituale esorcistico/iniziatico per
compiere una purificazione. Essa serviva a eliminare il senso di angoscia e di
colpa che il folle provava nel sentirsi al di fuori della società, in modo da
poter essere reintegrato nel corpo sociale. Il vero problema non era la follia
in se, ma il sentirsi diversi, in contrapposizione con la città. Ne
beneficiavano non solo il malato, ma anche coloro che lo circondavano.
Il malato poi era accudito dalla sua
famiglia, restava con i parenti, e continuava con la sua vita, anche se perdeva
alcuni diritti perché ritenuto incapace di intendere e di volere (non poteva,
per esempio, portare armi o fare testamento).
La follia era parte della realtà ma
ancor di più dei miti, che erano in qualche modo uno specchio del loro tempo.
In essi, aveva un ruolo fondamentale nell’ “errore tragico”, la colpa di cui si
macchiava l’eroe.
«Sopra
la mia vittima ecco getto questo canto: follia, delirio che devasta la ragione,
questo è l’inno incantatore di anime delle Erinni, che si canta senza lira e
dissecca di paura i mortali. Questo è il retaggio che la Moira inflessibile ha
filato per me: fare da scorta agli uomini che un vano furore ha gettato sulla
strada della morte, finché scenda sottoterra, ma anche dopo morto non ne sarà
liberato.»
(Eschilo,
Eumenidi, 328-339) – pag.35
La follia diventa quindi una punizione,
per la violazione di un divieto sacro o la dimenticanza di un rituale. Fino a
quando, dopo un dovuto allontanamento dall’umanità, vi si fa ritorno in seguito
a una purificazione. In ogni caso, nel mito, la pazzia ha sempre una causa. In
questo modo non è più incomprensibile, non può capitare a chiunque, si è al
sicuro se c’è un motivo dietro di lei. Una colpa.
Ritroviamo la follia anche in Omero, dove
però è diversa. Un fenomeno momentaneo e improvviso, causato dagli dei, perché
“gettano” addosso al malcapitato energia emotiva o la tolgono. L’intervento
divino era fondamentale per una società nella quale il pubblico biasimo, la
vergogna, era la sorte peggiore che potesse capitare. Perciò se la furia cieca
o insensata, la paura, o qualsiasi altro sentimento sono causati da un dio,
l’uomo è salvo dall’angoscia e dallo squilibrio mentale.
Un saggio veramente interessante dove
troverete molto di più di quello che ho appena accennato. Personalmente, ho
apprezzato di più i primi tre capitoli, L’invenzione
della follia, Due modelli di follia,
Mente e disturbi mentali in Omero,
rispetto all’ultimo, Strategie della
trance, dove l’autore parla dei vari riti estatici e diversi tipi di estasi
e trance. Tuttavia, si tratta di semplice gusto personale, non è riferito alla
qualità del capitolo.
Giulio Guidorizzi riesce a spiegare
alcuni aspetti della società dell’antica Grecia con chiarezza, non parlando
semplicemente di follia e possessione in termini superficiali, di oracoli e
riti bacchici, ma scavando più a fondo, portando alla luce l’umanità che si
nasconde dietro miti e costumi.
La mente umana è complessa, in continua
evoluzione, il nostro modo di comprendere noi stessi e il mondo continua a
cambiare. Le concezioni di malattia, anima, allucinazioni, non sono invariate e
non sono sempre esistite. E chi può dire quanto cambi una malattia mentale a
seconda di come viene trattata e assimilata dalla società.
Fra qualche secolo, chissà come
guarderemo ai nostri tempi e al nostro comportamento.
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