Racconti di diavoli e una favola – Robert Louis Stevenson

Traduzione di ?
Abeditore
Collana Piccoli Mondi
83 pagine

Lo ammetto, cerco di non giudicare mai un libro dalla copertina, ma non posso fare a meno di essere attratta e incuriosita da una grafica accattivante.
In questo caso, la copertina ha avuto un ruolo importante, un libretto con un paio di storie (e una favola) e un bel disegno e via, l’ho comprato.
In realtà, devo confessare con una certa vergogna che non credo di aver letto mai niente di Stevenson… salvo forse Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, durante la prima adolescenza. Non ne sono sicura (vi prego non pensate male di me per questa incertezza sulle mie letture) quindi direi che potremmo dire che non ho mai letto niente di suo. Potrebbe essere un buon proposito libresco per l’anno prossimo.

Stendiamo un velo pietoso sulla faccenda e torniamo a questo libricino, piccolo ma assolutamente consigliato.

La prima storia si intitola Markheim, dal nome del protagonista. Questi è un povero diavolo (perdonatemi il gioco di parole) che a Natale si reca nel negozio di un mercante per acquistare, a suo dire, un regalo per una signora. I due si conoscono, come il mercante lascia intendere, a causa delle difficoltà finanziarie del giovane e questo, senza indugi, rivela il vero scopo della sua visita. Derubare il mercante.
Ahimè, per raggiungere questo scopo Markheim si lancia su di esso e lo assassina.
Cosa accadrà ora a Markheim? In quel negozio, dopo il delitto, ogni rumore, ogni ticchettio, ogni ombra, ogni voce proveniente dall’esterno, non fanno altro che evidenziare la sua colpa, infondendogli la paura di essere scoperto. Di essere già stato scoperto.
Nonostante ciò parte alla ricerca del bottino, deve sbrigarsi, la cameriera potrebbe tornare da un momento all’altro.
In quella casa macchiata di sangue Markheim non è solo, è avvicinato dal diavolo, che sia reale o parte dello stesso Markheim poco importa. Perché non è l’orrore che questo porta, ma riflessione.

Nel dialogo che ne segue, Markheim deve guardare dentro di sé, comprendere cosa ha fatto della sua vita e fino a che punto può cadere in basso. Volgerà al male o al bene? È padrone del suo destino, o la via che ha intrapreso è ormai senza ritorno? O semplicemente, come vale per molti di noi, che lo ammettiamo o no, non è tanto la nostra propensione verso il bene che spinge le nostre azioni quanto il desiderio di non fare del male.

Il diavolo in questo caso non scatena quindi disperazione, non è lui il colpevole. Siamo noi i fautori del nostro destino, in un modo o nell’atro. Markheim, qualsiasi via scelga di intraprendere, deve farsi carico della decisione.

« - Conoscere me! – esclamò Markheim. – Chi può conoscermi? La mia vita non è altro che una parodia e una calunnia di me stesso. Ho vissuto per tradire la mia natura. Ogni persona agisce in tal senso; tutti gli uomini sono migliori di questa maschera che cresce intorno a loro e li soffoca. Li vedete tutti trascinati via dalla vita, come uno che i bruti abbiano preso e avvolto in un mantello. Se avessero il controllo di sé… se poteste vedere i loro veri volti sarebbero del tutto diversi, sfolgoranti come eroi e come santi! Io sono peggio della maggior parte; il mio io è più sepolto, e i motivi sono noti a me e a Dio. Ma, se avessi il tempo, potrei anche rivelarmi.» pag.23

Mi sono chiesta cosa intenda Markheim. Perché tutti gli uomini hanno una maschera? È solo un modo per cercare di giustificarsi? Per dire che in fondo siamo buoni?
O dobbiamo guardare a queste parole con positività, perché a volte siamo così sopraffatti dagli eventi che la nostra vera natura viene nascosta? Forse perché non è abbastanza forte?
C’è da sperare nella seconda ipotesi, anche se non fa onore a noi stessi dipingerci come esseri facilmente manipolabili. Torniamo quindi alla mia frase precedente. Non è tanto il bene che cerchiamo, quanto il non fare del male. Ma è sufficiente per toglierci questa maschera di indifferenza?

«Vi ringrazio dal profondo dell’anima mia per queste lezioni; ho gli occhi aperti ora, e mi vedo finalmente per ciò che sono.» pag.29

Auguro a tutti di riuscire a guardare dentro di sé e raggiungere la stessa consapevolezza.

Il secondo racconto, Il diavolo della bottiglia, ripercorre questi temi. Non è tanto il diavolo ad avere potere su di noi e ad essere terribile. Sono gli stessi uomini, con il loro essere e le loro azioni i responsabili. I veri padroni della loro anima.

La bottiglia di questa storia è bianca come il latte e cangiante come l’arcobaleno. È la custodia di un demone, un diavolo, portatore di doni, che può esaudire ogni desiderio del possessore della bottiglia.
Come ogni buona storia raccomanda, tutto ciò ha un prezzo. Siamo sicuri che desideri avverati dal diavolo ci siano donati senza che qualcuno ne paghi lo scotto?
Inoltre, se mai uno dovesse morire mentre è in possesso della bottiglia, la sua anima finirebbe all’inferno per l’eternità. L’unico modo per non subire questa condanna è vendere la bottiglia a qualcun altro, a un prezzo inferiore rispetto a quello a cui la si è acquistata. In questo modo, si passano i benefici e i pericoli a qualcun altro.

Certo, una brava persona avrebbe delle remore a vendere la bottiglia a qualcuno ignaro del fato che lo attende. Tenendo presente che più passa di mano in mano, minore è il prezzo al quale può essere venduta. Chi rimane alla fine con la bottiglia, senza poterla venderle perché non esiste un prezzo più basso, è spacciato.

Anche questo è stato un bel racconto, scritto con un buon ritmo e procura la giusta apprensione.


La favola finale, Il diavolo e l’albergatore, è molto breve e anche se vuole tenere un tono più leggero, il finale è comunque abbastanza crudo. Anche in questo caso il diavolo non ha tutte le colpe e prendersela con lui non annulla le nostre.

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