L’avversario di Emmanuel Carrère


Leggere questo libro non è stato facile e la colpa non è certo di Carrère che, anche se sono alla sua prima opera, trovo uno scrittore abile e capace di catturare l’attenzione con una scrittura fluida e coinvolgente.

Le difficoltà che sono sorte sono dovute al tema trattato.

La storia

Nel 1993 Jean-Claude Romand uccide i suoi genitori, sua moglie e i suoi due figli per poi tentare il suicidio, fallendo miseramente.

Nei giorni seguenti, il castello di carte che era la sua vita cade a pezzi, rivelando un’esistenza piena di menzogne.

Egli non si è laureato, non è un dottore, non lavora all’OMS.

Senza sapere ancora che cosa dire ai figli, li cullavano, li coccolavano, cercavano almeno di rassicurarli. Ma si rendevano conto che le loro parole non possedevano più il potere magico di prima. Ormai si era insinuato un dubbio che soltanto il tempo avrebbe potuto sradicare. Era come se avessero rubato l’infanzia, ai bambini e anche ai genitori: i piccoli non si sarebbero mai più abbandonati fra le loro braccia con la stessa miracolosa fiducia, miracolosa ma normale a quell’età, nelle famiglie normali. E proprio pensando a questo, a ciò che era andato irrimediabilmente distrutto, Luc e Cécile hanno cominciato a piangere.

Quest’agghiacciante storia vera non può non colpire profondamente perché il delitto che Carrère riporta tra queste pagine è qualcosa che terrorizza ogni anima. Ci colpisce perché va a intaccare le fondamenta di quella sicurezza che costruiamo in seno alla famiglia, circondati dai nostri cari, da coloro che amiamo e che ci amano, che proteggiamo e ci proteggono. Il pericolo è fuori, nell’oscurità, nei visi sconosciuti, ma a casa, al caldo e al riparo dal mondo, possiamo abbassare la guardia e chiudere gli occhi con serenità.

Jean-Claude Romand ha distrutto tutto questo per numerose famiglie. Ha mostrato ai parenti sopravvissuti, agli amici, ai vicini di casa, ai membri della sua comunità, che i mostri si nascondono dietro un sorriso affettuoso, un caldo abbraccio, a un nome gridato da un bambino: papà.


Questo non è un romanzo ma non lo definirei esattamente una cronaca. Carrère, come ammette lui stesso, non riesce a mantenere un rapporto totalmente distaccato e oggettivo da questi eventi e riconosce che non è possibile farlo. In questo racconto, l’autore narra gli eventi e le sue impressioni, almeno in parte, e le difficoltà pratiche ma anche emotive che ha dovuto affrontare per portare a termine questo libro. Si è dovuto chiedere se stesse facendo la cosa giusta, ha dubitato e ha provato vergogna.

Non posso certo affermare io se abbia fatto bene o meno. I fatti di cronaca nera scatenano sempre una certa morbosità ma credo che Carrère sia riuscito nel suo intento. Pur non rimanendo distante, anzi, il risultato ha qualcosa di intimo, non è ossessivo. Sembra raccontare i fatti con una certa tristezza, chiedendosi, come tutti noi, come sia stato possibile per un uomo arrivare a compiere un tale gesto.


Quello che cerca di concludere, e leggendo questa storia non posso che condividere, è che condurre Romand a questa fine sia stato un misto di cecità, disperazione e vigliaccheria. Forse sta proprio in quest’ultima parola il fulcro di tutto. Romand è un vigliacco, si crogiola nel suo non agire per ottenere stima e rispetto e lascia che siano le menzogne a costruire la sua persona. Lo fa fintanto che la cosa riesce piuttosto facilmente, finché è in grado di mantenere le bugie senza impegnarsi troppo. Poi, quando la verità, inevitabilmente, riesce a farsi strada, quando si avvicina il momento in cui dovrà apparire quello che è, egli elimina coloro che potevano rimanere più delusi da lui. Elimina quelli ai quali doveva qualcosa, non nel senso materiale, ma in quanto padre, marito, figlio.

Alla fine però, una volta uccisi i suoi cari, non riesce a uccidersi. Questo mi fa pensare che egli non volesse essere giudicato. Non riesco a bermi che non voleva farli soffrire. Romand è concentrato su di sé. In carcere è più felice perché non ha responsabilità.

È questo, mi sembra, che molti non gli perdonano, di essere sopravvissuto. 

Detto questo, non posso dire esattamente cosa lo ha portato a compiere un tale atto e forse nessuno potrà mai sapere che gli sia passato davvero per la testa, poiché le bugie non smettono mai di uscire dalla sua bocca, ma di certo non provo pietà.

Conclusioni

Una lettura angosciante, per la sua ineluttabilità. Senza perdono. Non c’è scusa, non c’è attenuante.

Nonostante non sia stata facile, la consiglio, per non ignorare ciò che di oscuro può nascondersi vicino a noi, che viviamo un’esistenza protetta (almeno parlo per me) e vedere come possa corrodersi un’anima.




Traduttore: Eliana Vicari Fabris
Editore: Adelphi

Pagg. 169

 

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