Nel Paese dei Ciechi – H. G. Wells
Traduzione di Franco Salvatorelli
Con una Nota di Sandro Modeo
Adelphi
61 pagine
Ero molto curiosa, perché non avevo mai letto niente H. G.
Wells e questo racconto, di cui avevo già sentito parlare, mi ispirava molto.
Siamo sulle Ande e
Nuñez, un giovane montanaro, viene assunto come guida da degli inglesi per
accompagnarli nelle loro esplorazioni. Accade l’imprevisto e Nuñez, separato
dagli altri, finisce per precipitare in una valle sconosciuta. O meglio, ignota
al mondo esterno ma sicuramente abitata. Ha raggiunto il Paese dei Ciechi.
Questa terra
leggendaria è separata da tutto il resto da generazioni e generazioni ormai e,
dallo stesso tempo, la sua popolazione è cieca.
Nuñez scoprirà se è
vero che “nel paese dei ciechi l’uomo con un occhio solo è re”.
Ciechi ma adattati. Questi uomini, col tempo, hanno
sviluppato fino al limite tutti i loro altri sensi, rimpiazzando tutto ciò che
beneficiavano dalla vista con altro. Per esempio, non è più l’espressione che
fa capire cosa provano gli altri, ma il tono della voce. Ogni movimento, ogni
suono, ogni odore, è interpretato.
Questo loro mondo però, non può che essere ristretto e limitato.
Arriva, infatti, solo fino a dove i loro sensi permettono.
Il giovane, appena arriva nel Paese dei Ciechi, sembra
intuire subito che c’è qualcosa che non va, o che è strano, per via di certi
particolari che nota. Capisce presto dove si trova e pensa di poterne
approfittare, crede di essere in vantaggio rispetto a loro: vede. La reazione
non è quella sperata, lo trattano come un idiota, un incapace. Quando cerca di
spiegar loro cosa sia la vista e com’è fatto il mondo, non gli credono. In
effetti, come si può spiegare la vista? In un mondo di ciechi, vedere è davvero
un vantaggio? La soluzione quale può essere? Continuare a perseverare e cerca
di istruire il prossimo o arrendersi e adattari?
La normalità è relativa. Nel paese dei ciechi vedere non è
un beneficio, come in molte culture e comunità essere diversi è negativo, isola
(indipendentemente da cosa porta questa diversità). Tutto ciò soprattutto
quando non si riesce neanche a comprendere il diverso e la nostra comunità
sembra sempre la migliore. Forse in questo, capita a tutti di essere ciechi,
prima o poi.
Sull’interpretazione di questo racconto sono state fornite
numerose versioni. Ognuna sarà diversa in qualcosa, ma mi sembra sia comune
quella sulla comunità. Sull’idea che non si possa essere isolati e chiusi
rispetto a mondo, alle sue innovazioni e i mutamenti che esso porta (questo
discorso mi fa pensare al film The
Village, un esempio di utopica comunità chiusa che crede che isolarsi dal
mondo possa salvarli).
Bisogna almeno prendere atto dell’altro, riconoscerlo, prima
di seguire eventualmente sulla propria strada. Il confronto è positivo, può
evidenziare i nostri difetti ma anche i nostri pregi, ma se uno è “cieco” in un
“mondo di ciechi”, potrà mai vedere? O è qualcosa talmente al di là di ogni sua
percezione e comprensione, da non poter mai arrivare neanche a sfiorarla?
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